La Gazzetta del Mezzogiorno visita il museo
Dall' articolo "Arte sacra, Andria mette in mostra la memoria della fede" scritto da Giacomo Annibaldis per la Gazzetta del Mezzogiorno del 21/04/2019.
"Niente di troppo: ne quid nimis. E' questa la massima della saggezza delfica - meno conosciuta del conosci te stesso" - che Francesco II del Balzo, signore di Andria, volle ricordare a se stesso iscrivendola sul collare aureo che orna il suo ritratto marmoreo. Questo eccezionale busto è ora in bella mostra nel Museo diocesano di Andria, finalmente allestito.
Francesco II del Balzo (1410-1482) signoreggiò sulla città nel XV secolo. Questo pregevole ritratto scultoreo fu commissionato al dalmata Francesco Laurana(o al ticinese Domenico Gagini, come da ultimo propende a credere la storica Clara Gelao). Era cognato del re di Napoli, Ferrante I (che troveremmo raffigurato, vestito da imperatore romano, in una tela seicentesca del Museo); era uomo di potere che ci teneva ad apparire anche come un raffinato erudito (ricordiamo che a ui si deve la Historia, in cui narrò il ritrovamento del corpo di San Riccardo datata 1451); ed era amante dell'arte. Sicuramente grazie a lui Andria potè arricchirsi di quadri e di statue di grande levatura Estetica.
Come mostrano, d'altronde, le due fascinose tavole che raffigurano il "Redentore" e la "vergine" quasi certamente commissionate da Francesco II. Qui Gesù e Maria sono inclusi nella loroo "amigdale" di gloria, attorniate da mantegneschi angioletti; lui ha le stigmate della passione e lei è incoronata come regina del cielo; lui siede su un grande libro che gli fa da piedistallo (a simboleggiare il suo essere Logos), lei è sontuosamente vestita; lui benedice Andria dall'alto quasi comandato in ciò dalla madre, che indica il profilo urbano, in basso. Che quello raffigurato ai loro piedi sia proprio lo sky-line di Andria, lo proverebbe la torre campanaria ancora incompleta, ci assicura Gianni Agresti, direttore del Museo, il quale ci guida nella visita (con Lucia Ceci e Francesco Carofiglio del Consorzio Idria che ha curato la selezione dei reperti e delle opere esposte). I due dipinti andrebbereo ulteriormente studiati, per non limitarsi all'attribuzione- sempre della Gelao - a un artista provenzale, fermatosi ad Andria.
Ragione di maggior fascino è che le due tavole erano scomparti che chiudevano due reliquari - anch'essi esposti -, veri e propri alveari contenenti sacri frammenti: ossa, vesti, veli... di santi.
Se a uno sguardo al XII secolo ci costringe la bella, ma certamente ridotta e rovinata, icona della "Vergine odegidria" che vanterebbe una primogenitura tra quelle "bizantine" di Puglia; a rievocare ancora il rinascimento andriese provvede un gruppo presepiale del XV secolo. La vergine è in atto di adorare suo figlio, mentre Giuseppe , anche lui inginocchiato sta togliendosi il cappello in segno di rispetto: chi fosse l'autore delle statue non si sa (uno scultore abruzzese, come sostiene Gelao?), ma alla "sacra famiglia" manca l'originale Bambinello, scomparso sostituito da una copia settecentesca.
D'altronde quella della dispersione del patrimonio sacro - dovuta a incuria e a ignoranza, se non a curiale avidità che si percepisce - è una nota dolente visitando i nostri musei diocesani; la cui istituzione vuol essere anche un tentativo di salvagguardare arredi ed effigi devozionali, oltre a quello di documentare la spiritualità di un popolo nel passato. un esempio eclatante di "scerpamento" sono le tre tavole dipinte da Antonio Vivarini, che raffigurano «Santa Chiara», «San Bernardino da Siena» e un possibile «SantAgostino». Erano tre scomparti del polittico ora conservato nella Pinacoteca di Bari (e datato 1467) e che annovera santi francescani come Ludovico da Tolosa, Francesco d'Assisi e Antonio da Padova. Le tre tavole rimaste ad Andria erano state dimenticate nell'antico convento di S. Maria Vetere, soppresso nell'800, per poi riemergere in un secondo tempo. A tutelare il magnifico patrimonio sacro di Andria furono soprattutto i presuli: soprattutto mons. Giuseppe Lanave, che negli anni '70-80 del secolo scorso, aveva radunato nell'episcopio - perché non incorressero in ulteriori dispersioni e rovine -statue, dipinti, arredi e paramenti sacri.Il prelato ne trae ciò un «catalogo» intitolato: «Ho raccolto per voi, fratelli di Andria, Canosae Minervino quadri, statue, intagli, intarsi..». Per questa benemerenza gli è stata dedicata una sala del Museo, con tele di Cesare Fracanzano (I605-1656), insieme a una tavola raffigurante l'«Annunciazione», in cui il committente -un Carafa, addobbato con splendide vesti e armi - ruba la scena alla Vergine e a Gabriele, l'arcangelo che vola lezioso con le sue ampie maniche di tutte ricamato. Da Minervino Murge provengono un efebico -ma accuratissimo - «Volto di Cristo» del XVI sec. e una più devozionale «Deposizione con san Francesco» del XVIII sec. Particolarmente raro è l'episodio dell'agiografia di san Francesco da Paola su una tela del XVII sec., che era nella cattedrale di Andria: il santo, fondatore dei Minimi, è davanti a Ferrante I d'Aragona, re napoletano qui in vesti romane, che gli ha concesso dei denari d'oro; ma il santo ne spezza uno, da cui scaturisce sangue: il sangue del popolo sfruttato. Come ogni museo diocesano che si rispetti, anche quello di Andria omaggia il suo santo patrono: Riccardo, vescovo inglese del XII secolo. Insieme alla reliquia della «sacra spina» donata da una principessa angioina - e della quale si espone qui un reliquiario argenteo ottocentesco, essendo scomparsi i precedenti - il santo patrono l'oggetto di maggior devozione per i fedeli anditi: nel Museo si me strano il sarcofago liteo databile probabilmente al momento della inventio delcorpo, nel XV sec., nonché la teca degli Anni '30 del '903; in un reliquiario d'argento è esposto un osso del suo braccio. Tra quadri del '700 e del'800 (tra cui una «Natività» assegnata a Con rado Giaquinto, ma da attribuire al suo allievo Nicola Porta, qui presente con i dipinti dei tre arcangeli canonici e di un angelo custode) fanno capolino da armadi a vetri le «statue vestite», salvatesi dalla condanna papale - un apposito de creto di Pio X, ci suggerisce don Gianni Agresti teste, braccia, piedi di manichini di Madonne e santi, sculture lignee che narrano una devozione popolare, attinente più all'antropologia che all'arte. Al secondo piano del Museo, invece fanno bella mostra gli arredi liturgici, i grandi piviali e le dal manche intessute e ricamate con filo d'oro, le pianete e le stole: paramenti che con il loro diverso colore parlavano di festività e cerimonie, scandivano le stagioni turgiche. E poi: i calici, gli ostensorii e le pissidi, le carteglorie, le patene e i pastorali... Un lessico rituale ormai ignoto ai più: perciò, a ovviare - e a recuperare la me moria delle funzioni sacre - provi vedono opportuni pannelli didattici, che elencano i termini più ire portanti, e spiegano l'utilizzo cromatico nelle celebrazioni liturgiche. D'altronde un Museo d'arte sacra soprattutto a questo serve: a perpetuare la memoria della spiritualità di un intero popolo.